Identikit del lievito

Più di una volta mi è capitato di sentire la frase: <<Sono intollerante al lievito, ho smesso di mangiare tutto quello che lo contiene e sono dimagrito/a>>. E grazie, vorrei anche vedere! Eliminare i prodotti con il lievito significa eliminare pane, pizza, torte e altre leccornie simili. Per forza poi uno dimagrisce. Ma al di là di questa considerazione, sorge spontanea una domanda: <<A quale tipo di lievito sei intollerante>>? Risposta: <<Boh! Al lievito in generale>>. A quel punto il mio sconcerto è totale, perché parlare di “lievito” al singolare, senza distinguere tra i vari tipi, non ha alcun senso… ammesso che esista realmente qualche intolleranza a qualche lievito (cosa che spero di riuscire ad approfondire in futuro).

4 tipologie di lievitazione

Il lievito si usa per far aumentare di volume gli impasti grazie alla sua capacità di formare gas (anidride carbonica, formula chimica CO2). Non sempre, però, la lievitazione avviene per mezzo di lieviti.
Esistono 4 tipi di lievitazione:

  • Lievitazione chimica: con agenti lievitanti (vedremo quali) che danno luogo a reazioni chimiche con liberazione di anidride carbonica (CO2).
  • Lievitazione biologica: con microrganismi che fermentano. Possono essere lieviti puri (lievito di birra) oppure un mix di lieviti e batteri (lievito naturale, detto anche “pasta madre”).
  • Lievitazione fisica: per evaporazione dell’acqua presente nell’impasto, senza impiego di lievito. Il tipico esempio è la pasta sfoglia: il vapore acqueo che via via si forma in cottura preme tra gli strati (impermeabilizzati dal grasso) determinandone il sollevamento.
  • Lievitazione meccanica: per incorporazione di aria montando l’impasto, come nel pan di spagna. Anche in questo caso senza lievito.

Siccome il focus dell’articolo sono i lieviti, non mi soffermerò sulle 2 tipologie di lievitazione che non ne fanno uso (fisica e meccanica) ma parlerò solo di lieviti chimici e biologici. Con una premessa forse banale, ma non si sa mai… Il termine “chimico“, qui come altrove nel mio blog, non ha alcuna accezione negativa. Semplicemente indica qualcosa fatto di atomi e molecole, come del resto tutto ciò che ci circonda, noi compresi. Il termine “biologico” riferito ai lieviti è sinonimo di “essere vivente” e non ha alcuna attinenza con l’agricoltura biologica.
La scelta di un lievito va fatta in funzione del prodotto che si vuole ottenere.

Lieviti chimici

I lieviti chimici, o “agenti lievitanti” sono sostanze che, per effetto del calore, si decompongono liberando anidride carbonica (CO2).
I composti più utilizzati a questo scopo sono:
Bicarbonato di sodio (o carbonato acido di sodio): E500. E’ il più comune ed è stato il primo agente lievitante ad essere messo in commercio. Si usa nelle torte di pasta morbida come la torta margherita.
Bicarbonato di ammonio: E503. Comunemente chiamato “ammoniaca per dolci” impropriamente, dato che l’ammoniaca in realtà si forma dalla sua decomposizione, oltre alla CO2. Viene usato soprattutto in biscotti e prodotti di pasticceria caratterizzati da una grande alveolatura o interno cavo, come bignè ed éclair. Negli impasti molto umidi è sconsigliato perché l’ammoniaca tende a disciogliersi nell’acqua lasciando residui sgradevoli.

Per la legge gli agenti lievitanti sono additivi alimentari e possono essere indicati in etichetta con il loro nome esteso e/o il codice E+numero che li identifica.
Qui l’elenco degli additivi alimentari autorizzati nell’Unione europea

Gli agenti lievitanti sono solitamente commercializzati in miscela con altri composti: acidi e sali che migliorano il rilascio di CO2, amido di mais (serve per assorbire l’umidità), aromi (ad esempio vanillina). Le miscele lievitanti sono chiamate “baking powder” o, più semplicemente, “baking“.

Un composto impiegato in combinazione con il bicarbonato di sodio è il cremor tartaro (bitartrato di potassio o tartrato acido di potassio, E336), un sale di potassio dell’acido tartarico. E’ un sottoprodotto del processo di vinificazione, e proprio per questa sua origine spesso viene descritto come “lievito naturale”. Vedremo fra poco che questo termine indica, in realtà, tutt’altra tipologia di lievito, quindi è meglio evitare di attribuirlo al cremor tartaro per non fare confusione.

Lievito di birra

Può essere in forma compressa (“cubetto”) o secco (come nella foto). In entrambi i casi è costituito da cellule vive di Saccharomyces cerevisiae, un microrganismo che appartiene al regno dei funghi. Il nome deriva dalle parole greche saccharon = zucchero e myces = fungo, mentre cerevisiae è una parola latina che significa “della birra”. Infatti viene utilizzato anche per la produzione di questa bevanda, oltre che per preparare pane e dolci. A differenza dei lieviti chimici, che agiscono in modo istantaneo, il lievito di birra necessita di qualche ora per agire. Questo perché le cellule del lievito devono avere il tempo necessario per trasformare lo zucchero (sia aggiunto che derivante dall’amido della farina) in anidride carbonica ed etanolo (che poi evapora durante la cottura). Il processo si chiama fermentazione e serve ai microrganismi per ricavare energia. Oppure pensavi che i saccaromiceti facessero tutta la fatica solo per compiacere noi umani? 😉

Lievito naturale o pasta madre

Attualmente viene anche chiamato lievito madre (o in inglese “sourdough“). E’ un impasto di farina e acqua in cui sono presenti diversi generi e specie di lieviti (tra cui può esserci anche il Saccharomyces cerevisiae) e batteri (soprattutto lattici). Come prodotti della fermentazione, oltre a etanolo e CO2, si formano acidi organici (come l’acido lattico), insieme ad altri composti derivanti dal metabolismo microbico che contribuiscono ad arricchire il sapore e a conferire una maggiore conservabilità ai prodotti realizzati con il lievito naturale. Il lievito naturale si presenta come un panetto di impasto, che può essere mantenuto legato, oppure in un vaso o anche immerso in acqua. Esiste una variante fluida, il cosiddetto licoli (lievito in coltura liquida), più semplice da gestire in ambito casalingo.

Il mio amato licoli 🙂

Chiunque può auto-prodursi il proprio lievito naturale: basta impastare acqua e farina e poi fare una serie di “rinfreschi” (aggiunte di acqua e farina) per alcune settimane. In questo modo la flora microbica naturalmente presente nella farina e nell’aria si seleziona spontaneamente fino ad arrivare all’equilibrio (lievito “maturo”). Nella fase iniziale è possibile aggiungere prodotti già ricchi di lieviti e batteri (frutta, yogurt) oppure starter, cioè colture selezionate di microrganismi. Il lievito naturale maturo deve poi essere costantemente rinfrescato. La lievitazione con lievito naturale richiede tempi molto più lunghi (anche più di 24 ore!) e maggiori accortezze rispetto al lievito di birra. Il risultato, però, ripaga la fatica. Il lievito naturale permette, ad esempio, di ottenere i grandi lievitati della tradizione italiana quali panettone e pandoro, ma anche brioche e pane.

Qui sotto due foto di un pane che ho fatto con il mio licoli.

Ora che sai tutto sul lievito ti propongo un piccolo quiz: secondo te è corretta l’indicazione “lievito” in questa etichetta?

P.S. anche su “margarina vegetale” ci sarebbe da discutere, ma questa è un’altra storia e si dovrà raccontare un’altra volta…(cit. Michael Ende)

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