Alla scoperta del sapore

Ciò che chiamiamo “sapore” è il risultato di sensazioni chimiche (trasmesse attraverso gusto e olfatto), fisiche (caldo, freddo, croccante, morbido, umido, secco, ecc.) e chemestetiche (pungente, piccante, mentolato) che percepiamo all’atto del mangiare. Gusto e olfatto sono sensi chimici perché funzionano grazie all’interazione con molecole e ioni presenti negli alimenti. Questi due sensi ci permettono di riconoscere i cibi, apprezzarli oppure rifiutarli in base alla nostra innata predisposizione o all’abitudine di consumo. A volte il rifiuto è causato dalla presenza di determinate molecole che segnalano quando un prodotto è avariato o tossico: si tratta di un meccanismo di difesa naturale. Per contro, mangiare qualcosa di “buono” è un atto edonistico, cioè dà piacere, spingendoci così a soddisfare il bisogno ancestrale di nutrirci.

I 5 gusti, anzi 6

Il termine “gusto” si riferisce alle sensazioni chimiche rilevate da cellule specializzate della bocca, le cellule gustative. Nella loro membrana sono immerse speciali proteine che costituiscono i recettori del gusto, strutture che mettono in collegamento l’interno della cellula con la cavità orale e legano le sostanze alimentari disciolte nella saliva. Ci sono 2 classi di recettori del gusto: i canali ionici e i recettori accoppiati a proteine G (GPCR, G Protein Coupled Receptors). Dei primi fanno parte il recettore per il gusto salato, sensibile allo ione sodio (Na+) e, in misura minore, allo ione potassio (K+), e il recettore per il gusto acido, sensibile allo ione idrogeno (H+). Alla classe dei GPCR appartengono, invece, i recettori per dolce, amaro e umami.

i recettori del gusto, proteine immerse nella membrana cellulare
I recettori del gusto sono proteine immerse nella membrana cellulare (fonte: maxfacts.uk)

I recettori per il gusto dolce sono di un solo tipo, formato da 2 proteine (T1R2 e T1R3) in grado di legare svariati composti, anche piuttosto differenti tra loro: monosaccaridi (ad esempio glucosio), disaccaridi (saccarosio, fruttosio), amminoacidi, proteine (come il dolcificante intensivo taumatina, E 957, estratto da una pianta africana) e composti di sintesi (saccarina, aspartame, sucralosio e altri dolcificanti artificiali). Nonostante le grosse differenze strutturali tra tutti questi composti, il gusto percepito è solo uno, ossia il dolce, dal momento che è coinvolto un solo tipo di recettore. All’opposto, per il gusto amaro sono stati identificati circa 30 tipi di recettori GPCR (costituiti da differenti proteine T2R) che ci permettono di rispondere a migliaia di composti amari, come l’amigdalina delle mandorle amare, la naringina del pompelmo e il chinino estratto dalla corteccia di un albero e utilizzato come ingrediente nell’acqua tonica. Le sostanze amare vengono prodotte dalle piante come meccanismo di autodifesa e spesso sono tossiche per gli animali. Il numero elevato di recettori per il gusto amaro è il risultato di un processo evolutivo di selezione grazie al quale evitiamo l’ingestione di alimenti pericolosi. Se da bambini abbiamo una particolare avversione per l’amaro, crescendo lo tolleriamo di più perché man mano che assaggiamo nuovi cibi impariamo ad apprezzare sapori nuovi, con più “carattere” (educazione al gusto). Ed è un bene, poiché alcuni composti amari hanno effetti positivi sulla nostra salute, basti pensare ai polifenoli, responsabili del gusto amarognolo dell’olio extravergine d’oliva. Il gusto umami, che in giapponese significa “cibo delizioso”, è ormai riconosciuto come quinto gusto. Il suo nome si deve al chimico nipponico Kikunae Ikeda il quale, conquistato dal sapore del dashi, tradizionale zuppa di alghe e pesce, ne studiò l’origine molecolare agli inizi del ‘900, individuandola nel glutammato, un sale dell’acido glutammico, amminoacido che si può trovare libero in molti alimenti, quali pomodori, funghi, alghe, alcuni pesci e formaggi stagionati. Furono poi scoperte altre 2 sostanze responsabili del sapore umami nei cibi, i cui sali inosinato e guanilato di sodio, insieme al glutammato di sodio, sono infatti impiegati dall’industria alimentare come ingredienti per produrre dadi da brodo e insaporitori. Solamente nel 2000 venne scoperto il recettore del gusto umami che, similmente al recettore del dolce, è di un solo tipo, costituito da 2 subunità (T1R1 e T1R3). In epoca più recente si è parlato anche del gusto grasso, dopo che alcune ricerche hanno individuato recettori per i lipidi su cellule gustative della bocca, oltre alla presenza di neuroni sensibili al grasso in una regione del cervello deputata al riconoscimento del gusto. Importanti per dare corpo e palatabilità ai cibi, i grassi sarebbero, dunque, responsabili di stimoli gustativi, anche se questo “sesto gusto” necessita di ulteriori studi.

La mappa della lingua: un falso mito

Abbiamo visto che i recettori del gusto sono immersi nelle membrane delle cellule gustative situate sulla lingua, ciascuna rispondente ad un solo gusto. Queste cellule sono riunite in bottoni gustativi (50-100 cellule l’uno), a loro volta raggruppati nelle papille, piccole protuberanze visibili a occhio nudo.

La disposizione delle diverse tipologie di papille gustative e il falso mito della mappa della lingua
Lingua, papille e bottoni gustativi (fonte: OpenStax)

Esistono 4 tipologie di papille: circumvallate (situate in fondo alla lingua), foliate (ai lati), fungiformi (principalmente sulla punta) e filiformi (sul dorso della lingua), queste ultime, però, prive di bottoni gustativi. Le diverse papille non sono selettive per un singolo gusto, ed è stato dimostrato da tempo che tutta la superficie della lingua è in grado di percepire tutti i gusti senza distinzione in zone. Sappiate, dunque, che la “mappa” della lingua che tutti conosciamo, con le 4 zone deputate al riconoscimento rispettivamente di dolce, amaro salato e acido, in realtà è sbagliata! Probabilmente deriva da un errore di traduzione di un articolo in lingua tedesca scritto nel 1901; si tratta perciò di un “falso mito” che, purtroppo, continua a circolare. Chiarito ciò, passiamo alla tappa finale del processo di percezione del gusto: la sua identificazione. Lungo la lingua e il palato ci sono nervi che connettono le cellule gustative con alcune aree del cervello. Senza entrare troppo nel dettaglio, diciamo che l’interazione tra sostanze alimentari e recettori innesca un segnale che si propaga tramite questi nervi fino al cervello, dove il segnale viene tradotto nel corrispondente gusto.

Aromi e olfatto

Il senso dell’olfatto gioca un ruolo essenziale nella degustazione degli alimenti in quanto contribuisce per il 70% alla percezione dei sapori. È strettamente collegato alla sopravvivenza: permette di riconoscere situazioni di pericolo (ad esempio l’odore del fumo), guida i neonati dei mammiferi a trovare il seno materno, crea anche lui repulsione nei confronti di prodotti non commestibili. L’olfatto è un senso chimico: viene stimolato da molecole volatili che entrano (direttamente attraverso le narici, oppure dalla bocca tramite la via retronasale) nella cavità nasale. Qui si trovano le cellule olfattive, che sono neuroni allungati tanto da raggiungere con un’estremità la cavità nasale e con l’altra il bulbo olfattivo, collegato al cervello.

Come funziona il sistema olfattivo
Il sistema olfattivo umano (fonte: chemcom.be)

Le cellule olfattive sono a tutti gli effetti un prolungamento del sistema nervoso centrale. Sulla loro estremità rivolta verso la cavità nasale ci sono i recettori olfattivi, proteine transmembrana di tipo GPRC (stessa classe dei recettori di dolce, amaro e umami). Ciascuna cellula olfattiva possiede un solo tipo di recettore, in grado di legare un numero limitato di molecole odorose. In tutto l’uomo esprime poche centinaia di tipologie differenti di recettori olfattivi, tuttavia riusciamo a discriminare circa 10 mila odori differenti, grazie ad un meccanismo di tipo combinatorio, molto più complesso del modello “chiave-serratura” che regola il gusto. Ecco come funziona: ciò che percepiamo come un unico odore è dato da un insieme di molecole che attivano più recettori, creando un pattern riconoscibile dal nostro cervello (codice combinatoriale). È un po’ come un mosaico composto da tante tessere: è la specifica disposizione delle tessere a generare il disegno finale. Il legame tra recettori e molecole odorose innesca una serie di reazioni che si propagano a cascata fino a raggiungere aree preposte del cervello, dove il segnale è tradotto in uno specifico odore. L’esperienza della percezione odorosa viene immagazzinata nel nostro cervello come memoria olfattiva, pronta a essere evocata ogniqualvolta ritorniamo a percepire lo stesso odore, permettendoci di riconoscerlo. E non solo: poiché il meccanismo di percezione degli odori coinvolge anche il sistema limbico, la memoria olfattiva è associata a ricordi ed emozioni che riemergono quando siamo nuovamente esposti a quel determinato odore. A questo proposito viene spesso citato lo scrittore Marcel Proust che, in un passaggio del suo romanzo Alla ricerca del tempo perduto, racconta di una merenda a base di tè e madeleine che scatena in lui emozioni legate a memorie d’infanzia.

Molecole odorose

Possiamo “raccontare” il profilo aromatico di un prodotto ricorrendo a descrittori, ossia termini codificati di riferimento: canforato, etereo, floreale, fruttato, di latte, mentolato, muschiato, tostato, speziato, erbaceo, pungente, putrido, terroso e via dicendo. Il mondo del vino ha elaborato per primo un ricco vocabolario di descrittori, creando la figura del sommelier, come hanno fatto pure altri settori, in primis cioccolato e caffè, ma anche formaggi, birra, ecc. Non dimentichiamoci, però, che l’aroma di un alimento è il risultato dell’insieme di più molecole odorose differenti (il caffè, ad esempio, ne contiene un migliaio!). Sono per lo più molecole lipofile (si sciolgono nel grasso), di piccole dimensioni (basso peso molecolare) e volatili, cioè tendono a passare allo stato gassoso, quindi a trasferirsi dall’alimento all’aria circostante. Chimicamente formano una famiglia eterogenea che include alcoli (come l’etanolo), acidi grassi volatili (ad esempio, acido acetico e butirrico), aldeidi (vanillina, aldeide cinnamica), composti solforati (mercaptani e solfuri presenti in aglio, cipolla e cavoli), composti azotati (trimetilammina, associata a odore di pesce), terpeni (limonene, alfa-pinene). Spesso molecole con gli stessi gruppi funzionali (gruppo alcolico, aldeidico, ecc.) generano un odore simile, ma non sempre è così. La qualità odorosa, infatti, dipende anche da altre caratteristiche strutturali della molecola (lunghezza, presenza di doppi legami…).

Test sensoriali e strumentali

Come si identificano le singole molecole odorose? Con uno sofisticato strumento, il gascromatografo, che separa le molecole fra loro e ne permette il riconoscimento e la quantificazione. I risultati dell’analisi sono espressi attraverso un grafico (cromatogramma) in cui i diversi “picchi” corrispondono a ciascuna molecola, mentre l’area sotto il picco è proporzionale alla sua concentrazione. Un altro approccio per valutare gli odori, utilizzato anche in combinazione con l’analisi gascromatografica, è quello dei test sensoriali condotti da assaggiatori addestrati che annusano e/o assaggiano cibi e bevande oppure campioni di odoranti appositamente preparati. Non è detto che una molecola aromatica in concentrazione maggiore venga percepita di più dal nostro sistema olfattivo, dipende anche dalla sua soglia di percezione, ossia la concentrazione minima per produrre una risposta olfattiva. Ciascuna molecola odorosa ha una specifica soglia di percezione: quella dell’etanolo, ad esempio, è 10 mila volte maggiore di quella del limonene, ciò significa che di etanolo ne occorre 10 mila volte di più per essere percepito. Poiché le soglie di percezione possono variare tra persona e persona, i test sensoriali coinvolgono un numero piuttosto elevato di assaggiatori e rispettano criteri ben precisi di esecuzione affinché diano risultati validi. Parliamo ora di un fenomeno che tutti voi avrete di certo sperimentato: l’abituazione, una sorta di assuefazione causata dall’esposizione ripetuta ad un odore. A quel punto dobbiamo fare una pausa per dare il tempo ai nostri recettori olfattivi di riattivarsi. La diminuzione o scomparsa della risposta odorosa può anche essere dovuta all’arrivo di uno stimolo nuovo, odoroso o di altro tipo. In questo caso non è la percezione a scomparire, ma la consapevolezza della percezione stessa. Ad esempio, è stato dimostrato che se siamo concentrati sullo smartphone ci accorgiamo meno degli odori che ci circondano. Viceversa, alcuni stimoli visivi (ad esempio, certi colori) riescono ad amplificare o modificare la nostra percezione odorosa, come vedremo fra poco.

Sensazioni chemestetiche

Pungente, piccante, mentolato: non sono né gusti né aromi ma sensazioni chemestetiche, così si chiamano le sensazioni dovute all’attivazione chimica di recettori per stimoli fisici ad opera di alcune molecole. Ad esempio, capsaicina e piperina (alcaloidi contenuti rispettivamente nel peperoncino e nel pepe) attivano il recettore TRPV1, che è anche sensibile al calore e al dolore; mentolo ed eucaliptolo agiscono, invece, su TRPM8, sensibile a stimoli freddi. Lo stimolo si propaga attraverso il nervo trigemino, fino al cervello, dove si traduce in percezione di caldo e pungente o freddo. Alcune sostanze, poi, sono in grado di generare una sensazione di formicolio poiché vanno ad attivare dei recettori tattili. È il caso dello sanshool contenuto nel pepe del Sichuan, il cui effetto “anestetizzante” si sprigiona all’improvviso circa un minuto dopo avere masticato un granello, a differenza delle sostanze chemestetiche di peperoncino, senape e wasabi, che innescano una risposta più rapida e provocano anche lacrimazione.

Pepe del Sichuan. Contiene una molecola (sanshool) che stimola i recettori tattili e crea un effetto anestetizzante
Zanthoxylum piperitum o pepe del Sichuan (fonte: Didier Descouens)

Ancora più potente è l’effetto dello spilantolo presente nei fiori di alcune piante brasiliane (Spilanthes acmella e Spilanthes oleracea o Acmella oleracea), chiamate “piante del mal di denti” e tradizionalmente impiegate come anestetico locale. Avendo provato di persona questi “fiori elettrici” (mai aggettivo fu più azzeccato) posso assicurarvi che la sensazione è quasi devastante, simile a una scossa elettrica accompagnata da ipersalivazione incontrollabile (imbarazzante…), ma fortunatamente l’effetto svanisce abbastanza in fretta, lasciando una sensazione di bocca pulita e un gradevole aroma di limone. Chef e mixologist stanno sperimentando i fiori elettrici in piatti e cocktail, proponendoli come un gioco a sorpresa per i clienti.

Fiori elettrici, noti anche come piante del mal di denti.
I fiori “elettrici” di Spilanthes acmella (fonte: Phyzome)

Per completezza, chiariamo che non rientra tra le sensazioni cinestetiche l’astringenza, dovuta invece alla presenza di sostanze (come i tannini, una classe di polifenoli) che interagiscono con le proteine della saliva riducendone le proprietà lubrificanti.

L’influenza degli altri sensi

Le caratteristiche fisiche degli alimenti possono influire sulla nostra percezione dei sapori, come è facilmente intuibile nel caso di temperatura (caldo, freddo), consistenza (croccante, duro, morbido, friabile, gommoso), umidità (umido, secco), untuosità. Un inciso: la percezione della consistenza è dovuta alla sensibilità muscolare, che si chiama cinestesia (o propriocezione). Anche colori e suoni sono in grado di modificare la percezione del gusto. La scienza che studia tutto questo è la gastrofisica, di cui è pioniere Charles Spence, professore di psicologia sperimentale all’Università di Oxford e autore del libro Gastrophysics: The New Science of Eating. A sostegno delle teorie di gastrofisica ci sono i risultati di molti esperimenti. Ad esempio, si è visto che una mousse al cioccolato servita su un piatto bianco viene percepita più dolce rispetto alla stessa mousse servita su un piatto nero. Anche l’ascolto contemporaneo di musica ad alta frequenza (anziché a bassa frequenza) aumenta la percezione di dolcezza, come si è osservato con vino e cioccolato. Il senso dell’udito è strettamente correlato all’apprezzamento gustativo di alimenti come biscotti e cracker: il rumore che si genera all’atto di spezzarli rimanda direttamente all’idea di croccantezza e friabilità. Pensate che sono stati fatti studi scientifici per misurare tale rumore al fine di migliorare il prodotto. L’olfatto è il senso più influenzato da altri stimoli, tanto che un odore può sembrare più intenso se il prodotto in esame viene colorato. Il colore rosso, in particolare, è risultato capace di rendere l’esperienza gustativa più piacevole. Insomma, anche l’occhio vuole la sua parte e in epoca di social sappiamo bene quanto l’immagine, l’estetica, la presentazione, contribuiscano al successo di un dolce o di un piatto.

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

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Articolo pubblicato su Pasticceria Internazionale n. 309, aprile 2019, pagg. 39-44 (Chiriotti Editori).

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